Con questo titolo da Don Ferrante, di manzoniana memoria, fa il suo debutto su Winetopblog la birra.
Galeotto fu, in questo caso, Golositalia manifestazione enogastronomica che chiude oggi i battenti a Montichiari (BS), dopo tre intensi giorni.
Ma perché la birra non esiste? Perché quella assaggiata a Montichiari è prodotta dal Birrificio Inesistente di Castel Goffredo (MN). Se è inesistente il birrificio è inesistente anche la birra.
Lo dice la logica aristotelica. Come, infatti, può essere prodotta una birra da un birrificio che non esiste?
Ci siamo cimentati in quattro assaggi inesistenti con le birre Sveltina, Sbagliata, Scaldabanchi e Sette chili in sette giorni. Dietro questi nomi di fantasia si celano una Blonde Ale, una Hybrid I.P.A., una English Porter e una Golden Ale con luppoli della Valcamonica.
A presentarci le birre c’è Carlo, mastro birraio anch’egli un po’ inesistente, del Birrificio Inesistente.
In breve, estrema qualità e ricerca delle materie prime. L’acqua proveniente da pozzo artesiano che si caratterizza per la durezza (oltre i 10 gradi francesi quindi calcarea) tale da escludere la produzione di birre a bassa fermentazione che risulterebbero troppo minerali. L’orzo mantovano della Agricola Treccani in principalità. I lieviti selezionali, non autoctoni!. L’accurata scelta dei luppoli e del loro assemblaggio (luppoli cechi, americani, etc).
La Blond Ale mi è piaciuta molto, vengo poi a sapere che è anche stata premiata da Slow Food come birra quotidiana. Profumata, beverina e con un gradevole finale agrumato.
Di poi, la I.P.A. che proprio I.P.A. ortodossa non è perché, e qui che sta il segreto, la tecnica produttiva è quella inglese delle I.P.A. ma i luppoli sono americani. Questi ultimi la rendono intelligentemente un po’ meno amara per una maggiore abbinabilità ai piatti della nostra tradizione culinaria. Sapida. Mi è piaciuta anche questa proprio perchè sbagliata cioè non così amara come alcune I.P.A. da bere solo abbinate a piatti indiani cioè dolciastri.
Non rientra nelle mie corde la Scaldabanchi anche se di ottima fattura e tostatura dei malti a legna.
Alla fine, forse l’assaggio non è tecnicamente corretto nella scaletta ma, si sa, durante una fiera si è più spinti dalla curiosità che dalla tecnica degustativa, la Sette chili in sette giorni. Quest’ultima non è una birra da dieta ma il mastro birrario ci ha spiegato che per la sua realizzazione sono utilizzati sette chili di quattordici varietà di luppolo e sono lasciati riposare per sette giorni per conferire tutto il loro aroma nella birra. Col luppolo camuno di montagna il gusto ci guadagna.
Al naso la birra ha colpito per lo spiccato sentore di fieno poi corrisposto in bocca ma ammorbidito da una nota mielata molto gradevole. Finale gradevolmente amaricante.
Accattivante il packaging delle bottiglie. Ben articolata e spiritosa la brochure di presentazione.
Alla fine ancora più bello è il fatto che se la birra è inesistente non ingrassa nemmeno.
By D.T.