Quale il modello per i vini rossi di Franciacorta?

Ed ogni tanto mi riaffiora il pensiero: ma perchè in Franciacorta si insiste a produrre ancora (tanto) vino rosso? In un mondo inondato da Prosecco, in un mercato (senz’altro quello italico) dove la bollicina franciacortina ha saputo ritagliarsi una nicchia di emergente valore, in un mondo che pare avere interesse solo per le bolle, non importa se provengano dal Regno Unito o dalla assolata Trinacria, ma perchè continuare a produrre vini rossi? Che peraltro sono rimasti bloccati su modelli fermi ad almeno una decina di anni fa. Vino rosso se ne beve di meno, anche perchè lo stanno emarginando… I grandi chef sembrano progettare i loro piatti solo in funzione di un abbinamento superacido e bollicinoso; se ti azzardi a bere un bicchiere ed un dito di vino rosso è meglio che lasci la macchina parcheggiata e ti fai chiamare un taxi; anche nelle trattorie champagnotte ed etichette fluorescenti vanno per la maggiore, con abbinamenti azzardati a cucina “tradizionale” (prima o poi lo provo il prosecco con lo strinù o con lo spiedo… forse è ancora preferibile la CocaCola!). Eppure il vino rosso io lo bevo ancora (spero di averlo dimostrato almeno in questo nostro diario di incontri) e lo bevo per il lungo ed il largo dell’italica penisola, ma nessuno è rimasto al palo come il Curtefranca doc. Ma perchè? Forse i miei amici/maestri del blog potranno darmi qualche risposta. Forse i fatturati calanti non spingono ad investire? Oppure, a mia insaputa, questi vini, che costicchiano e non possono essere tutti definiti vini da pasto, hanno un loro mercato stabile (“effervescente” non ci credo!). Ma perchè per questi vini il gusto è rimasto a quello dei primi anni novanta? Si è vero: il legno è sparito! Prova che le cantine stanno risparmiando… E si intenda che non ce l’ho con la cantina la cui bottiglia vedete ritratta qui sotto, e che mi ha aiutato ad abbinare un piatto della tradizione bresciana. Di questa cantina amo irrefrenabilmente le sue bollicine, ma non credo aprirò più un loro Curtefranca Rosso, privilegiando altre zone, anche non lontane dalla Franciacorta (vedi il Benaco, su entrambe le coste, o il Trentino, e perchè no il Veneto? Etc etc.) dove ancora si investe molto sulla qualità e sulla continua evoluzione del gusto che modifica anche la tradizione: temo di più la pigrizia ( e le casse vuote…), che la giustificazione di un fantomatico ancoraggio alla tradizione.

Editore… D.T… R.R… Tito… aiutatemi a capire…

d.c.

Braccale 2006. Maremma Toscana IGT. Jacopo Biondi Santi

Sangiovese fuso con Merlot. Vino che nasce probabilmente con progetti di “umiltà” e che effettivamente non è stato in grado di sopportare adeguatamente il riposo d qualche anno in bottiglia: nessuna nota ossidativa, ma tanta, troppa debolezza aromatica sia nei profumi, per nulla intensi e di triste monotonicità, sia al gusto che ha perso completamente la struttura acida, ha annullato la presenza tannica, ma mantiene solo ed esclusivamente il calore alcolico. Forse dieci anni fa la stappatura avrebbe regalato maggiore espressività, ma noi, oramai, ricerchiamo nei nostri vini solo emozioni “forti”.

d.c.

Exultet 2017. Fiano d’Avellino docg. Quintodecimo

Certo che siamo strani! Teniamo in cantina, coccolate e vezzeggiate, bottiglie che magari meriterebbero un pronto consumo, solo per il gusto di vedere come sarà domani, ed invece quelle nate appositamente per sopportare anche lunghi invecchiamenti le stappiamo subito.., forse solo per vedere l’effetto che fa…

Data la carica corrosiva dell’acidità, l’invasiva percezione di sapidità, la netta sensazione olfattiva di legno (nobilissimo) la bottiglia avrebbe meritato la stappatura come minimo nel novembre 2027 (forse qualche sapiente l’avrebbe dimenticata in cantina fino al 2035…), ma noi no! L’Editore ( e chi se no?) non ha atteso un solo minuto ed i calici erano già ampiamente colmi per l’incoerente nuova esperienza. Verde luminoso alla vista, di brillante trasparenza. Profumi immaturi ed impegnativi: da note erbacee e vegetali, a sensazioni minerali e poi marine, per poi virare, con la temperatura, ad un netto burro di nocciole con cui mantecare tutti i nostri sensi. Il legno arriva, solo dopo, solo dopo un bel po’ e ricorda le delicate tostature della Borgogna. In bocca è solo una miscela di acido e sale: troppo immaturo per essere considerato un grande; troppo perfetto, nella sua collimata calibratura, per essere deludente. Mettetelo via! Muratelo in qualche intercapedine del muro! Lasciate un biglietto per il 2035, nella speranza di poter essere voi i futuri scopritori…

d.c.

Quartomoro. VSQ.

Di vino ne bevo la giusta quantità… di bottiglie ne ho aperte tante nella mia vita, provenienti da tutte le parti del mondo, ma un Metodo Classico dalla Sardegna NO! E perchè mai la Sardegna non dovrebbe produrre uno spumante Metodo Classico? E perchè mai non farlo anche buono? Globalizzazione? Monotematicità ( e monotonia) dei mercati? Forse è tutto vero! Forse per primi noi dovremmo rifiutare le bollicine che arrivano dall’isola di Ichnusa (ma anche dalla Trinacria e da tutta la Magna Grecia, e dalla Costa adriatica, e così via per il mondo…), ma vi assicuro che il vino che ho bevuto era proprio buono, sorprendente, irrinunciabile!

L’impianto non è originalissimo: pur utilizzando uve (mi dice l’Editore… e chi se no?) di Vermentino, sembra di trovarsi di fronte ad un bicchiere di Franciacorta (ma buono!). Giallo brillante, con bollicina di nobiltà inattesa. Al naso, delicato, sussurato, ma elegante: si percepisce una frutta gialla non matura, una sensazione, questa si originale, di litchi. E’ evidente che il vino vuole sferzare la sua scossa elettrica! Ed invece in bocca, pur giocato sulle durezze, il liquido divino è equilibrato: il mordente iniziale dell’acidità viene immediatamente trasformato in percezione salina e poi di nuovo in una “non dolcezza” fruttata. Ti viene voglia di bere; la bevuta è inappagata: hai bisogno ancora di un sorso… Scaldandosi poi affiora al naso ed al palato una percezione di nocciola, straordinario richiamo o ispirazione alle grandi bollicine del molto più a Nord…

d.c.

Pace – Roero Docg Riserva 2014

“Il futuro è il Roero!!” cosi mi dice sempre d.c.
E’ per ciò che quest’anno, la classica capatina invernale per degustare il tartufo bianco ha avuto come meta Canale nel cuore del Roero, a soli 15 minuti di auto da Alba. Forse è per la così breve distanza dalle più celebri zone di Barolo e Barbaresco che non ci ero mai stato.
Scelto accuratamente il ristorante, l’Osteria della stellata Enoteca di Canale, ci immergiamo nei piatti al tartufo. E’ in tal modo che, alla ricerca dell’abbinamento perfetto, dopo aver assaggiato alcuni blasoni del Roero ci viene consigliato il Riserva di Pace.
E’ limpido l’intenso granato nel bicchiere. Mi ha ammaliato già al premier nez: vibrante e verticale. Intensi i piccoli frutti rossi, di cui si percepisce in parte ancora la croccantezza, ben immersi in uno straordinario corredo speziato. Si susseguono liquerizia, pepe e chiodi di garofano poi sentori di tamarindo, vaniglia e noce moscata.
Elegante e profondo al palato. La beva, dai tannini forse ancora un po’ scalpitanti, è appagante e setosa con un finale leggermente ammandorlato. Di lunghissima fragrante persistenza.
Davvero un gran bella scoperta, anche nel rapporto qualità prezzo che all’Info Point Wineshop di Canale è quasi imbarazzante: da comprarne a casse!!!

Forse il futuro è già qui!!

R.R.

CHATEAU LYNCH BAGES 1993. GRAND CRU CLASSE’. A.Pauillac C.

Le jeux sont fait.

Nasce originariamente tra i Fifth Growth ossia i 18 (grandi) produttori del Medoc (con particolare attenzione al Pauillac) che Napoleone III incluse nella classifica del 1855, questo Chateau (allora denominato solo Lynch) si pregiava di essere riconosciuto come Cinquième Grand Cru Classée. Assemblaggio variabile da vendemmia a vendemmia , con una costante predominanza del Cabernet Sauvignon miscelato a Merlot, Cabernet Franc e piccole quote di Petit Verdot.

Il vino nel bicchiere appare ancora non completamente granata, ha corpo nel fluttuare sulle pareti del bicchiere, con una carica glicerica apparentemente importante. I profumi, nonostante una stappatura di oltre 4 ore, sono ancora sopiti e molto difficili da interpretare: svetta su tutti un peperone verde abbastanza invasivo e qualche spruzzata di cannella. E per tutto il pranzo è rimasto molto stabile, senza mai dare accenno di evoluzione: bisogna chiedere a Tito se il poco avanzato, e gelosamente custodito, si fosse modificato a fine giornata. La stessa cripticità riscontrata al naso era percepibile in bocca: nonostante i 26 anni l’acidità non ha perso nerbo, peraltro supportata da una decisa sapidità, che devo dire rappresenta il ricordo più caratterizzante del vino. Sottile la percezione sulle labbra e palato, sorprendendo le attese di un maggior corpo promesso dalla osservata viscosità. Persistenza sottotono che sfuma su note vegetali.

d.c.

L’Ala del Drago 2012. Gutturnio Superiore Doc. Luretta.

Quanta veemenza in quel bicchiere, quanta intensità e forza espressiva. Eppure non credevo che dopo sette anni un Gutturnio potesse apparire così vivo, giovane e forte. Nel bicchiere è inchiostro, ma nelle pennellate di colore il viola è ancora dominante. I profumi sono intensi, fruttati e rapidamente cangianti: apre una prugna croccante e matura, per poi richiamare note di mirtillo, per poi ancora trasformarsi in fiori, o meglio in profumo di petali di fiori carnosi, ed infine sfumare su sensazioni cioccolatose. In bocca la componente acida è ancora ben presente e rappresenta il cuore della struttura del vino che qui però appare più debole e sottile, con minore capacità di impressionare “chi sia in ascolto della storia…” Mantiene comunque una bella persistenza che ribadisce la rossa fruttuosità. Credo, e comunque sorprendentemente, all’apice della maturità, con forse la possibilità di invecchiare ancora qualche anno, e di modificare, con effluvi terziari, gli impatti olfattivi.

d.c.

Authentique. Le Brun de Neuville. Champagne

Siamo sul confine sud della Marna a veramente poche decine di metri dal confine dell’Aube: vigne in ogni suo dove.

Splendente alla vista, come, ahimè, forse solo alcuni Champagne sanno essere. Profumi particolari, fuori dagli schemi o perlomeno dalle attese: l’intensità della nocciola e del burro di arachidi è quantomeno singolare. La prevalenza di percezioni di frutta secca (il calore farà emergere anche la presenza della noce) supera ampiamente il fondo agrumato di scorza di limone e bergamotto. In bocca invece avviene un ribaltamento improvviso: le papille vengono travolte da una spremitura di agrumi e soffrono come sottoposte apparentemente alla corrosione di acido citrico. Ed i due binari (naso e bocca) viaggeranno paralleli per tutto il viaggio, senza mai incontrarsi, lasciando, di fatto, qualche dubbio sull’armonia generale.

d.c.

1703. Togni Rebaioli. Vino Rosso (Vallecamonica).

Canone inverso

Nebbiolo della Vallecamonica. I vigneti adagiati sulle pendici del Monte Altissimo in località di Erbanno, condotti da uno dei maggiori sperimentatori camuni: Togni Rebaioli. L’ultima volta che avevo provato alcuni campioni di Nebbiolo camuno era circa 15 anni fa, quando un coraggioso enologo cercava di convincermi della potenzialità del divin vitigno, vista la vicinanza alla Valtellina (che però, fino a prova contraria ha un’esposizione solare esattamente perpendicolare alla valle dell’Oglio). Poi da allora più nulla, ammettendo come colpa grave che, pur essendo un assiduo frequentatore della Valle, non sono un altrettanto assiduo bevitore dei suoi vini. L’occasione si è presentata in un recente pranzo a Borno, presso il mitico Cantinì, convinti (facilmente) dalle insistenze di una giovane e preparata sommelier. A quanto pare la produzione è limitata e non costante nel tempo, troppo condizionata dall’andamento meteo della stagione (mi dicono che anche il “2019” non sarà prodotto).

Chi si attende di trovare i caratteri varietali del Nebbiolo, anche quello Valtellinese (…), rimarrà deluso: ma il vino è comunque molto interessante.

Il colore è caldo, già maturo, e rotea nel bicchiere con grande eleganza. I profumi sono tenui, leggeri, appena sussurati, ma eleganti: esce una confettura di piccoli frutti rossi ed una lontana nota di cioccolato al latte. In bocca entra sottile sottile; è duro, molto fresco, per nulla aggressivo in tema di tannini. Rimane la percezione di gelatina di more. E’ tutto molto semplice, ma corretto e godibile. E poi, dopo un po’ di minuti, dopio ampia areazione i temi si invertono, il canone diventa inverso… improvvisamente al naso ringiovanisce! La frutta affiorante è rossa ed immatura: la componente acida è percepibile senza portare il liquido alle labbra. La suadenza suggerita appena dopo la stappatura si trasforma in scontrosa aggressività, segno che è presto, ancora troppo presto per essere veramente conosciuto.

d.c.